La strategia motoria, semplice e consolidata nel tempo, con cui un predatore cattura la preda o conquista il suo spazio non ha subito, tranne in casi di adattamento alle mutazioni ambientali, alcuna evoluzione. Il gioco, la corsa, la lotta per la supremazia e le strategie predatorie di gruppo che osserviamo nel mondo animale fanno parte di un dinamismo primordiale.
La motricità umana ha invece subito delle trasformazioni nel tempo, di pari passo con l’evoluzione antropologica, sia fisica che culturale, con la trasformazione dell’ambiente e il progresso tecnologico. È del tutto evidente che le abitudini e le abilità motorie dell’homo herectus erano diverse da quelle dei loro antenati e che queste mutarono ancora nell’homo habilis e, che le forme di vita sociale, l’invenzione degli utensili e della ruota, la scoperta dei metalli e l’avvento dell’agricoltura portarono a delle modificazioni stravolgenti delle tecniche motorie dell’homo sapiens proseguite con le scoperte del vapore e dell’elettricità più recenti.
Questa evoluzione, naturalmente, riguarda anche lo sport nelle sue esplicazioni remote e più moderne. Le tecniche motorio-sportive hanno subito delle logiche di trasformazione legate strettamente alla conoscenza empirica del movimento e più recentemente allo studio della biomeccanica, ma dovute anche all’interdipendenza con l’ambiente. Nessun tipo di sport si è sottratto a questa regola. Possiamo, pertanto, affermare che tutte le discipline sportive hanno subito un’evoluzione delle tecniche, con tempi e misure di pari passo con le conquiste tecnologiche e con i modelli culturali dei diversi contesti storici.
Pensiamo, per esempio, al salto in lungo con l’uso degli “halteres” (fig. 1) nel mondo classico e alla pedana sintetica per la rincorsa e alla buca di atterraggio di oggi, o all’evoluzione degli stili del salto in alto che ha permesso di spostare l’asticella sempre più in alto. Dal salto a forbice al fosbury, passando per il ventrale, c’è stata un’evoluzione della tecnica significativa come conseguenza dell’avvento dei ritti e della asticella flessibile, dei materassoni che hanno permesso un atterraggio non traumatico anche a certe altezze (prima si era costretti ad atterrare in piedi). Due esempi che dimostrano quanto la tecnologia, ossia i materiali, compresi calzature e attrezzi, influenzino le tecniche motorie senza trascurare lo studio della biomeccanica che permette di migliorare l’efficacia del gesto atletico, grazie all’applicazione di tabelle di allenamento scientificamente mirate a correggere gli errori e a migliorare i dettagli esecutivi.
L’evoluzione del gioco del calcio è un esempio, invece, della chiara influenza del contesto socio-culturale nelle tecniche motorie: dall’espressione di forza dell’harpastum, alla violenza dei giochi medievali e del calcio fiorentino, al caotico rincorrere tutti una palla senza definizione di ruoli e compiti degli albori del calcio moderno di fine 800, fino al gioco organizzato che tutti conosciamo. Il “metodo”, il calcio “bailado” brasiliano, il calcio “totale” olandese, il “catenaccio” italiano, la “zona”, sono state tendenze culturali che richiedevano attitudini motorie particolari e strategie di allenamento adeguate. Per comprendere meglio il concetto, analizziamo l’evoluzione tecnica che ha subito il ruolo del portiere con l’introduzione della regola del fuorigioco e più recentemente l’abolizione del retropassaggio: al portiere moderno è richiesta, oltre alla reattività tra i pali, una adeguata tecnica con i piedi e visione di gioco per una partecipazione più attiva anche lontano dai pali.
Lo sport che meglio si presta a dimostrazione dell’interdipendenza tra evoluzione delle tecniche corporee e contesto culturale-tecnologico è il ciclismo.
Il ciclismo nasce con l’invenzione della bicicletta e la sua tecnica è soggetta ad una trasformazione graduale di pari passo con l’evoluzione tecnologica della “macchina” che si può così sintetizzare: una fase del legno (fine 700 inizio 800), fase del ferro (fine 800) e una fase delle leghe (secondo dopoguerra). Il primo “celerifero” compare in Francia nell’ultimo decennio del 700: è tutto in legno (draisine fig. 2) comprese le ruote, senza pedali e con un rudimentale dispositivo per dirigerlo. Ha un’impronta infantile, con una tecnica elementare, per cui la spinta viene impressa puntellando i piedi a terra, alternativamente o contemporaneamente. Per tutta la prima metà dell’Ottocento subisce alcune evoluzioni, compaiono rudimentali selle e manubri, i primi telai in ferro che sostanzialmente non mutano la tecnica. Cosa che avviene in modo drastico con la comparsa, nel 1835, del primo “velocepiede” a pedali, ad opera del fabbro parigino Michaux. Sono delle fragili libellule, con pedaliera su ruota anteriore che, a sua volta, è molto più grande rispetto a quella posteriore e con sella, in un primo momento, piuttosto indietro rispetto alla verticale dei pedali (fig. 3). Il conduttore agisce con i piedi, tramite i pedali, direttamente sulla ruota ed assume una posizione quasi verticale che trova riferimento nella tecnica già consolidata dell’equitazione; anche l’abbigliamento è tipicamente composto da berretto, casacca e stivali e, infatti, viene chiamato Cavaliere. Il passaggio dalla spinta con i piedi puntellati a terra all’uso dei pedali con tutti i suoi vantaggi è un chiaro esempio di modificazione della tecnica dovuta all’evoluzione delle forme. Nonostante l’equilibrio precario, perché piccoli spostamenti del corpo in avanti spostano drasticamente il baricentro, il fatto che il diametro della ruota anteriore permetta di guadagnare, con un giro di ruota, 2-3 metri fa sì che Il biciclo incontri generale favore. In futuro, altri si occupano del suo perfezionamento, come ad esempio, l’inglese E. Cooper e poi la Coventry Sewing Machine (macchine da cucire). Nel 1878, il meccanico francese Renard, nell’intento di guadagnare nel rapporto pedalata/metri, aumenta sconsideratamente il diametro della ruota, compromettendo ulteriormente la fragilità e l’equilibrio, senza immaginare le difficoltà a “montarci su senza staffe”. Successivamente, la ruota anteriore viene ridotta, ma i pedali rimangono ancora sulla ruota (fig. 4). Nel 1880, viene messo sul mercato, ad opera della Tangent of Coventry Tricycle Company (fig. 5), un biciclo del tutto rivoluzionario con trasmissione per mezzo catena, anche se mantiene la ruota anteriore leggermente più grande. Nel 1885, compare la Rover (fig. 6), con il diametro delle ruote ridotto rispetto alla tangent. Ora è il rapporto disco/pignone a determinare lo sviluppo della pedalata, non più il diametro della ruota motrice. La tangent e la rover, che rappresentano la prima forma di bicicletta (appunto da piccolo biciclo), vengono derisi e accolti con ostilità e ripugnanza; non si accetta, infatti, la trasmissione a catena, convinti che sia meglio agire direttamente con i piedi sulla ruota motrice e non si vuole accettare l’inclinazione del busto, in quanto i polmoni compressi non forniscono l’ossigeno necessario al sangue. In realtà, sono le abitudini e i sentimenti legati ai modelli culturali consolidati che hanno difficoltà a cedere il passo all’efficacia della novità tecnologica; ciò si evidenzia in modo del tutto naturale nel fatto che la tangent mantiene la ruota anteriore più grande pur non avendo ora nessuna utilità e ancor prima con l’abbigliamento e posizione verticale del velociman che ha come riferimento la figura del cavaliere.
Infine, nel 1886, è la Pioneer, derivata dal perfezionamento dei precedenti modelli, a dissipare ogni incertezza imponendosi per maneggevolezza e per la vittoria nelle gare che divengono sempre più frequenti e seguite. L’evoluzione della macchina ha ancora determinato le modificazioni del modo di pedalare e la posizione del corpo in una tecnica più adatta al raggiungimento del miglioramento del fine, cioè dell’avanzamento. Enry Desgranges (fig. 7) , direttore del tour e primo recordman dell’ora, a Parigi, nel 1893 con 35,325 chilometri, sosteneva che, “la difficoltà dev’essere affrontata guardandola in faccia con la volontà ed i propri muscoli…” In questo caso è ancora più evidente l’influenza frenante del contesto culturale sull’evoluzione della tecnica. Tuttavia, un’analoga situazione di contrasto si ha con l’avvento del cambio moltiplicatore, inventato già negli ultimi anni del’800. Nonostante la possibilità di adattare la pedalata all’altimetria del terreno permetta di graduare lo sforzo e il lavoro muscolare e, nel complesso, una guida più agevole, il cambio moltiplicatore è respinto da molti addetti dell’epoca, tanto che viene interdetto fino al tour del 1937. La concezione del tempo è che nel ciclismo ci si deve imporre con la forza bruta e di conseguenza il cambio moltiplicatore viene visto come un’astuzia per raggirare le difficoltà. Dai vari tentativi per battere il record dell’ora vengono le spinte maggiori verso ulteriori evoluzioni tecnologiche nell’era delle leghe e della fibra del secondo dopo guerra. La bicicletta (fig. 9) con la quale Francesco Moser batte nel 1984 il record detenuto da Eddy Merckx è diversa di quella delle leggendarie battaglie di Coppi e Bartali, ma anche di quella usata 12 anni prima dallo stesso Merckx (fig. 8). Manubrio rovesciato, canna inclinata, ruote senza raggi e chiusi da piatti in fibra di carbonio e soprattutto una posizione più inclinata permettono una migliore penetrazione aerodinamica. La prestazione di Moser, frutto anche di strategie alimentari e di sperimentali metodologie di allenamento, segna l’inizio di continui studi sulla tecnica e sui materiali ma ci vogliono 9 anni per essere battuta, poi, è un susseguirsi di record che marcano ancor di più la distanza, in senso figurato, con la tecnica di fine 800. La posizione più inclinata con lo sterno quasi appoggiato sul manubrio e il bacino perpendicolare all’asse dei pedali rappresentano una tecnica che permette ai muscoli di lavorare con angoli delle leve articolari più favorevoli, proprio come la posizione dello sprinter ai blocchi di partenza.
Ancora una volta, si assiste ad una “trasposizione di un modello”, preso a prestito da altre discipline: dall’equitazione all’atletica leggera.
Salvin